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«Il mio Trentino» – Di Lorenzo Dellai e Gianpaolo Tessari

Titolo: «Il mio Trentino» Autori: Lorenzo Dellai e Gianpaolo Tessari Editore: CURCU GENOVESE © 2008 Brossura, pagine 104

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E' stato presentato il libro/intervista che la «Curcu & Genovese» ha editato in questi giorni e che consiste appunto in una lunga intervista che il collega Gianpaolo Tessari del quotidiano «Trentino» ha fatto al presidente della Provincia autonoma di Trento.
Come si legge nel frontespizio, «II mioTrentino» è un'intervista sincera, raccolta e pubblicata in spazi diversi da quali Dellai traccia un bilancio di questi anni, anticipa le sfide che vorrebbe portare avanti.
Ovviamente il libro ha fini elettorali, dato che esce a meno di due mesi dalle prossime elezioni provinciali, ma è pur sempre un'ottima occasione per conoscere da vicino un uomo che da dieci anni è presidente della Provincia, dopo essere stato sindaco di Trento per altri sette.
Negli ultimi cinque anni si è trovato ad amministrare qualcosa come 20 miliardi dl euro, per cui si tratta indubbiamente del cittadino più potente del nostro territorio.
Dalla lettura dell'intervista, Lorenzo Dellai non appare solo nella figura di governatore-manager, ma soprattutto come l'uomo che ha inventato la Margherita per traghettare il Trentino dall'epopea della Democrazia Cristiana a quella della Seconda Repubblica, dove erano completamente da ridisegnare i rapporti tra un'Autonomia non più solidamente rappresentata nella capitale e uno stato che rincorre i «ricchi cugini di campagna» alla ricerca di una logica federalista da trasferire a tutto il Paese.
Ed è anche un ritratto di una persona sulla cui vita privata non sapevamo molto.

Il libro è acquistabile al prezzo di 10 euro, ma qui di seguito ne pubblichiamo il primo capitolo, su autorizzazione dell'editore.

GLI AUTORI

LORENZO DELLAI
Quarantanove anni, è presidente della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino Alto Adige. Sposato, ha tre figli.
Già sindaco di Trento, nel febbraio 1999 è stato eletto per la prima volta presidente provinciale. Riconfermato poi nel turno elettorale dell'ottobre 2003, con il 60,8% dei voti.
GIANPAOLO>TESSARI
Quarantotto anni, è giornalista professionista. Sposato, due figlie, segue dal 1998 il settore della politica.






© 2008 CURCU & GENOVESE

«Il mio Trentino»
di
Lorenzo Dellai e Gianpaolo Tessari


CAPITOLO I

Gli inizi: la crisi della Dc negli anni '90.
L'idea della Civica Margherita, la stagione dei sindaci in Provincia. Un progetto che ha fatto scuola, esportato.
Le tre eredità. La chance mancata del Pd.




Presidente Dellai, lei è un "politico". Che effetto le fa questo clima che sembra considerare così poco la politica?
Comunque la si consideri, la politica è fondamentale per la comunità: se essa fosse definitivamente sconfitta, sarebbe il trionfo dello scontro di tutti contro tutti, dell'egoismo, del cinismo.
Nessuno ha ancora inventato nulla di diverso dalla politica per tenere assieme la società in modo democratico e non violento.
Certo, c'è buona politica e cattiva politica. Ci sono politici rispettati e ci sono quelli che, con il loro esempio nella vita pubblica ma anche, mi permetto di dire, in quella privata, concorrono a far diminuire la considerazione del popolo verso la politica.
Ma, soprattutto, la politica ha i suoi mutamenti ciclici. E i partiti subiscono questi mutamenti, talvolta si trasformano con essi, talvolta ne vengono travolti. E noi, in questi dieci-quindici anni, abbiamo attraversato uno di questi mutamenti ciclici, forse uno tra i più radicali e profondi della nostra storia nazionale e locale.

È in questi anni di mutamento che è nata, si è affermata e poi è morta la Margherita trentina.
La Margherita trentina non solo ha accompagnato, ma, potrei dire, per molti aspetti ha guidato questo decennio di transizione.
È nata nel 1998 come una sorta di scialuppa costruita per navigare nel mare aperto dopo il naufragio della grande nave rappresentata dalla Democrazia Cristiana trentina.
Insomma, è stata una prima risposta alla crisi del sistema politico e istituzionale del Trentino.

C'erano state avvisaglie di questa crisi?
La crisi, con tutto ciò che ha comportato, ivi compresa la fine della Democrazia Cristiana, aveva radici ben più profonde e precedenti rispetto a Tangentopoli, che peraltro in Trentino è stata veramente roba da poco. Tutti gli anni Ottanta sono stati anni di scricchiolii del sistema e di tentativi per porvi rimedio. E tutto ciò era ben presente nella consapevolezza di una parte di classe dirigente. Basti pensare al costante, doloroso cruccio dell'ultimo Bruno Kessler. Ricordo, come fossero di oggi, le sofferte riflessioni che potevo ascoltare negli incontri più o meno informali di quel periodo. Incontri con tanti amici come Luciano Azzolini, Tarcisio Andreolli, Armando Paris, Tarcisio Grandi, Paolo Berlanda, Enrico Bolognani, Spartaco Marziani ed altri ancora. Ma ricordo anche un lucidissimo editoriale dell'allora direttore de l'Adige, Piero Agostini, pubblicato nel corso del 1988, che mi pare avesse come titolo: "Il Trentino ha bisogno di un Governatore".
Si avvertiva da molte parti che il quadro politico dei decenni precedenti stava mutando radicalmente, anche per effetto dei processi internazionali e cresceva parimenti la coscienza che la nostra stessa autonomia stesse affrontando un mutamento di ciclo. E gli scricchiolii del sistema, si incominciava a capire, non si potevano più contenere né con l'illuminismo riformista né con il pragmatismo gestionale.
Un tentativo lucido e generoso, era stato messo in campo durante la presidenza di Flavio Mengoni, che provò a riordinare l'impianto istituzionale (ricordiamo la legge sulla elezione diretta dei comprensori, poi cancellata da un ricorso dei comuni cembrani) e ad innovare la stessa matrice sociale del nostro sviluppo sotto l'idea della "qualità della vita".
Ma era la radice "politica" del sistema che stava esaurendo la propria "spinta propulsiva".

E come cercò di reagire Kessler?
Il presidente Kessler, presumibilmente già allora consapevole della malattia che lo stava minando nel fisico, sentiva un dovere più morale che politico di fare qualcosa per salvare il sistema, per evitare il crollo di tutto ciò per il quale lui e la sua generazione avevano lottato, sofferto, sognato e mirabilmente costruito. Avvertiva, da leader qual era, che un mondo stava morendo e un altro nuovo ancora si faticava a scorgerlo all'orizzonte, così come aveva fatto alla fine degli anni Sessanta, impostando quella straordinaria stagione di investimento sul futuro per la quale, ancora oggi, il Trentino vive di rendita.
Giocò anche l'ultima carta estrema. Dopo il citato editoriale di Piero Agostini (e nessuno saprà mai se i due si fossero parlati prima) diede incarico ad alcuni di noi di dichiarare la sua disponibilità a ritornare a guidare la Provincia, a fare il "Governatore". Nessuno raccolse questa sua disponibilità: forse non ve ne erano le condizioni, forse sì. Quello che è certo è che prevalse la sottovalutazione dei fenomeni di cambiamento che erano in corso. Giusto un anno dopo Kessler se ne uscì con la famosa frase del Trentino "piccolo e solo": era una dichiarazione d'allarme attorno alla necessità che l'autonomia si ripensasse anche politicamente e non affidasse il suo futuro solo alla "amministrazione".

Seguirono anni di grandi rivolgimenti della politica.
Beh, si entrò poi nel periodo di Tangentopoli e nel ciclone della cosiddetta fine della prima Repubblica. In Trentino ciò coincise con un periodo di fortissima instabilità politico-istituzionale. Emblematica è stata la Legislatura 1993-1998, con tre giunte provinciali che si sono susseguite nella forte confusione politica, sotto la guida di Carlo Andreotti primo presidente non democratico-cristiano della storia dell'autonomia.

E finì la storia della Democrazia Cristiana trentina.
Sino a quell'epoca la DC era il Trentino. Era il partito che aderiva alla società in tutte le sue pieghe, che ne coglieva gli umori, ne intercettava i bisogni, ne mediava i conflitti. Era il partito che aveva guidato il riscatto del Trentino dalle condizioni storiche di povertà e marginalità fino agli standard economici e sociali di eccellenza. Era il partito che aveva indicato, con incredibile lungimiranza, le piste di futuro che la comunità avrebbe poi percorso con fiducia. Quel partito era venuto meno nel giro di pochissimo tempo in tutta Italia ed anche in Trentino. C'erano state delle avvisaglie. Ricordo le elezioni politiche del 1992, quando Nino Andreatta, morto Kessler l'anno prima, accettò di candidare per il collegio senatoriale di Trento. Fu bocciato. La sensazione era quella di chi si trova di fronte ad un castello che, torre dopo torre, frana su se stesso, svuotato dal di dentro.

Cosa è stato per lei il periodo vissuto nella DC?
Una straordinaria esperienza di formazione alla politica e - in fin dei conti - alla democrazia.
Mi infurio tutte le volte che sento qualcuno parlare di quel periodo, della così detta Prima Repubblica, in termini di disprezzo. E se pensiamo alla pochezza che talvolta ci tocca di constatare nella "repubblica" di oggi, della quale si perde non solo il numero, ma pure la percezione, ebbene non può che tornare la considerazione della straordinaria esperienza di quel periodo.
E non mi riferisco solo alla statura morale e politica dei grandi leader, democristiani o non democristiani, quelli che ci hanno consegnato un Paese democratico ed un Trentino autonomo.
Mi riferisco anche all'esperienza concreta vissuta localmente da molti come me.
Ricordo spesso ai giovani che - per fortuna - frequentano anche oggi il nostro partito, che prima di prendere la parola nel comitato provinciale dove ero stato eletto passarono due o tre anni. Perché prima bisognava ascoltare; poi capire quello che dicevano i più autorevoli; infine bisognava avere qualcosa di interessante da dire. Non era come adesso, quando l'ultimo arrivato si alza e pretende di sapere una pagina più del libro. E anche i giornali erano un po' diversi, più "educativi": prima di vederti pubblicato nella cronaca politica un qualche tuo pensiero, ce ne voleva! E bisognava che fosse qualcosa che avesse capo e coda. Insomma, per me la DC è stata anche una grande scuola di vita, una palestra di formazione non solo politica, ma anche civile ed umana, dalle prime esperienze di lavoro manuale durante le Feste dell'Amicizia fino alla carica di vice segretario provinciale con Paolo Piccoli segretario politico.

La Margherita trentina vide la luce in una mattina d'estate con i trentini che pensavano ancora alle vacanze.
La Margherita trentina nasce formalmente nell'estate del 1998. Il comitato promotore era composto dal sottoscritto, quale segretario del Partito Popolare, da Beppe Zorzi dei Comitati Prodi, da Beppe Detomas per l'Unione Autonomista Ladina e da Gaetano Turrini, leader delle liste civiche trentine.
Mi ricordo la prima uscita pubblica per presentare il simbolo, frutto della discussione tra molti ma soprattutto della vena artistica di Silvio Cattani. Lo presentammo per la prima volta in Val di Fassa. Partimmo da Trento a bordo della mia vecchia Alfa 75 io, Mauro Betta e Giorgio Paolino.
In realtà, però, la nascita politica della Margherita risale a qualche anno prima. Lungo tutti gli anni Novanta si erano sviluppate numerose iniziative proposte da chi avvertiva ormai la crisi del partito e cercava di aprire, dentro o fuori di esso, prospettive nuove. Il 27 agosto del 1990 più di cinquecento persone, provenienti da ogni parte d'Italia, si ritrovarono all'hotel Trento per lanciare la Rete di Leoluca Orlando. Ero sindaco da pochissimi mesi e mi ricordo che il "manifesto" della Rete era stato scritto di suo pugno da Leoluca durante un incontro, il giorno prima, nell'Alta Carnia, in una cantina piena di prosciutti, a Sauris. Credo che questo documento originale sia rimasto nelle mani di Alessandro Dalla Torre. Per la verità mi ricordo anche che in quel periodo ci fu qualcuno che non condivise per nulla questa mia "contiguità" con la Rete: in particolare la cosa non piacque a Giorgio Postal, in quei periodi commissario della Democrazia Cristiana di Palermo, che con grande rispetto ed amicizia, tipiche di altri tempi, mi rappresentò il suo radicale dissenso.
Voglio dire che già nel 1990 una parte significativa del cattolicesimo democratico italiano viveva con disagio il rapporto con il partito: ci si interrogava sui limiti di quella esperienza, oltre che sulla sua grandezza; si sondavano vie e strumenti nuovi; si ricercavano approdi più innovativi.

E in questo clima si colloca il "laboratorio" del comune di Trento.
Nella primavera del 1993 si divise il gruppo consiliare della Democrazia Cristiana: dodici colleghi su venti, guidati dal capogruppo Mauro Marcantoni e dalla indimenticabile Emanuela Bressanini, si costituirono in "Democratici popolari", a tutti gli effetti gli antesignani della Margherita. In quella occasione si varò una nuova giunta comunale, passando da dodici a cinque assessori: entrò al governo la sinistra e Ale Pacher diventò assessore alle politiche sociali. Due anni dopo fu il mio vice sindaco, dopo le prime elezioni con la scelta diretta del sindaco da parte del popolo.

Venne subito dopo il congresso del Partito Popolare: il famoso congresso di Comano, che lasciò a lungo strascichi e polemiche.
Comano fu un passaggio importante. Un congresso importante, presieduto dallo scomparso senatore Severino Lavagnini.
Io avevo ormai maturato la convinzione che bisognava costruire una nuova forza politica per vivere la transizione, ma non volevo costruirla "contro" la storia e la rappresentanza politica del popolarismo trentino. Per questo mi candidai a segretario provinciale del Partito Popolare, proponendo questo percorso.
Il mio antagonista era Toni Scaglia: per lui c'era invece ancora bisogno di un "Partito identità". Vinsi io, come noto, ma Toni Scaglia non aveva tutti i torti. Infatti c'erano buone ragioni anche in chi perse il congresso di Comano: non a caso oggi ci ritroviamo insieme con tantissimi amici che allora votarono per Toni Scaglia: in particolare, Danilo Zanoni, Marco Giordani, lo stesso Guglielmo Valduga, con il quale abbiamo riallacciato un dialogo qualche anno fa impensabile. Io avevo dalla mia la ragione politica: senza quel passaggio non sarebbe nata, negli stessi termini e con la stessa forza, la Margherita e non si sarebbe usciti da quella pericolosa instabilità. Non si sarebbe gestita la transizione nei termini vissuti in questi dieci anni. E tuttavia nell'epoca della politica mordi e fuggi, talvolta più simile al marketing che al servizio per la comunità, nell'epoca della politica intesa come mera organizzazione degli interessi, quel bisogno di identità e di valori, quel richiamo esplicito allo spirito del popolarismo, costituiscono un imprescindibile punto di riferimento.

La Margherita trentina, dunque, secondo lei, ha rappresentato un punto di riferimento per la transizione. Prima di parlare della fine di questa transizione, vogliamo mettere in evidenza le "questioni" che l'esperienza della Margherita in Trentino ha attraversato in questi anni e che, forse, sono ancora aperte per il futuro?
Per l'appunto, questa esperienza decennale, se sul piano più amministrativo e istituzionale ha garantito stabilità di governo, in un epoca di generale sconvolgimento, sul piano più squisitamente politico e prepolitico ha fatto i conti almeno con tre grandi questioni. Forse troppo sbrigativamente, ad esse in passato si è ritenuto di guardare con superficialità, ma più approfondita si fa l'analisi, più si coglie la loro importanza strategica. Mi riferisco alle questioni del popolarismo, della territorialità, del "centro".

Partiamo dalla questione del "popolarismo".
Il popolarismo, in Trentino, è espressione della comunità, prima che della politica. Per questa ragione la chiusura del ciclo storico della Democrazia Cristiana trentina non poteva e non può comportare, neppure nella stagione del bipolarismo, l'archiviazione o l'insignificanza di questa cultura. Più siamo consapevoli delle sfide epocali nelle quali siamo immersi, più questo "modo di essere" della società trentina riemerge come un punto di riferimento fondante. La ricchezza di consolidate radici cristiane, che traspaiono anche visivamente in ogni parte della nostra comunità, vissute però in modo mai integralista e declinate piuttosto in chiave mitteleuropea; i principi di responsabilità diffusa, personale, familiare e collettiva; un senso alto delle istituzioni e delle regole, vissute come cifra di una comune appartenenza e di un "comune sentire"; la cultura dell'equilibrio, della mediazione, del dialogo come misura capace di tirar fuori, anche dai legittimi conflitti, una porzione di bene comune; l'idea della grandezza della politica, intesa come modo esigente per testimoniare la "carità", ma insieme anche del suo limite, della sua "non-onnipotenza", a fronte degli àmbiti di sovranità, di libertà, di responsabilità delle persone, delle famiglie, dei corpi sociali: tutto questo costituisce ancora un grande giacimento di valori per la politica. Certamente non si può tradurre con espressioni politiche del passato, ma non si può disperdere, per assecondare il primato di una concezione mediatica, indistinta e pragmatista della politica.

Lei ha fatto accenno alle radici cristiane e alla cultura del cattolicesimo trentino. Ma ha ancora senso questo riferimento nella politica?
Ha scarso senso ed ancor più scarso valore se il riferimento è ai cosiddetti atei devoti, a quelli cioè che "imbracciano" le radici cristiane della nostra comunità come se fossero un mitra da usare contro i nemici del "sistema".
Ed anche la Chiesa di Roma, mi permetto, dovrebbe riflettere sui rischi che derivano ad essa stessa da questo appiattimento strumentale ed interessato.
Io mi riferisco, al contrario, ai valori del cristianesimo che inducono un politico a non sentirsi mai "appagato" per il suo impegno a favore della persona e della comunità. Al cristianesimo che non si piega, non si esaurisce e non si consuma in una formula politica, ma ne costituisce lievito, stimolo, pungolo, tensione. Mi riferisco a quei valori che ti costringono ogni giorno ad interrogarti anche sui limiti delle cose e degli strumenti del mondo: mai come in questo periodo iper-tecnologico sorge infatti la necessità di un presidio morale che ci aiuti ad avere misura, ad esempio, nella manipolazione dei codici della vita o addirittura nella "gestione" della vita umana stessa.
E poi, vorrei dire, in una stagione di giusto e doveroso afflato meritocratico e di inesorabile spinta alla competizione, ricordare e "vivere" il discorso della montagna e l'attenzione agli ultimi deve pur essere la bussola per chi fa politica.

La "seconda questione", lei dice, è stata quella della "territorialità". Se ne è parlato molto, recentemente, non sempre in termini comprensibili.
Ovunque, in Europa, la "territorializzazione" della politica sta diventando questione all'ordine del giorno. Più siamo globalizzati, più avvertiamo la gracilità dei contenitori nazionali come àmbiti entro i quali ricercare senso di appartenenza ma anche opportunità competitive. I territori, dunque, costituiscono il nuovo scenario entro il quale ricostruire capacità di futuro: locale e globale. Ricuciti assieme con il filo di una nuova cultura sociale e politica, costituiscono veicoli di futuro, contro le paure e i rischi di regressione, molto più che i tradizionali riferimenti al dato della "nazionalità". È chiaro che ciò vale in modo particolare per territori, come il nostro, che hanno anche un particolarissimo regime istituzionale. La vera questione consiste nell'organizzare anche la rappresentanza della politica, in un'epoca non più caratterizzata dai conflitti tra ideologie contrapposte, in maniera coerente con questo ruolo nuovo dei territori.
La Margherita trentina ha cercato di essere, su questo terreno, una esperienza-laboratorio: e lo è stata. L'abbiamo fatto, oltretutto, molto prima che le recenti vicende politico-elettorali dimostrassero il fallimento, al Nord, di un centrosinistra pensato, vissuto e governato con una cultura ancora pesantemente nazionalista e centralista.
In Trentino, tutto ciò assume una valenza particolarissima, poiché la nostra autonomia è ormai diventata una macchina potentissima che richiede però un software politico suo proprio, un'anima politica che deve necessariamente raccordarsi con il resto del mondo, ma non può essere semplicemente "importata".

Ma allora, perché non ha funzionato la "Casa dei Trentini"?
In realtà, pochissimi la volevano veramente: Margherita e Autonomisti covavano ancora una forte attitudine concorrenziale, se non di reciproca ostilità. D'altra parte, i processi politici possono essere decisi dall'alto e calati "a freddo" solamente nel caso di partiti virtuali, di "proprietà" di qualcuno. Non nel caso di partiti radicati, partecipati, condivisi. In questo caso vi era il riflesso di una lunga stagione di contrapposizione fra il filone popolar-democristiano e quello autonomista: ricordo ancora, come simbolo di tutto questo, un memorabile comizio-contraddittorio al quale ho assistito in una delle ultime campagne elettorali politiche che vedevano Kessler candidato. Si era a Pergine e il suo antagonista era Enrico Pruner: litigarono perfino sul numero di stelle alpine (una o due) che Pruner aveva sulla fibbia della cintura. Due cavalli di razza; due autonomisti fino al midollo, ma, all'epoca, due strategie politiche contrapposte. Dunque, forse non era del tutto maturo il tempo per la Casa dei Trentini. C'era bisogno di lavorarci su. È ciò che abbiamo fatto in questi ultimi tempi, assieme a Ugo Rossi, Franco Panizza, Dario Pallaoro e gli altri leader autonomisti con i quali è nata un'alleanza di futuro.

E la terza questione, quella del "centro"? Non è che rispunta il "centro-centro"?
No. Il "bipolarismo", seppur in modo tutto particolare, anche in Trentino è diventato un riferimento per i cittadini. Tuttavia il Trentino esige piuttosto un bipolarismo "mite", non violento e rissoso. La domanda di "centro" che la gente esprime si riferisce più alla tradizione mitteleuropea del "Zentrum" che non a quella di Ceppaloni. È una richiesta di governo, di solidità programmatica, di equilibrio, di visione e di responsabilità. Certamente non è una domanda di opportunismo o di esercizio di furbizia da parte di un centro inteso come "luogo per le mani libere". Del resto, Alcide Degasperi parlava della Democrazia Cristiana del suo tempo come di un partito di centro che guarda a sinistra. Era, credo, il modo di esprimersi di un grande statista che, in forza della sua ispirazione e della sua cultura, intendeva coniugare i valori della libertà con quelli della solidarietà. Sono cambiati gli scenari: è cambiato il mondo. Tuttavia questo principio rimane di fondamentale importanza e semmai scorgiamo ogni giorno nuove impellenti ragioni che richiedono una forte presenza di questa idea di fondo. C'è l'esigenza di unificare, anche attraverso la politica, una società tendenzialmente sempre più frammentata e in preda al rischio che prevalgano gli interessi particolari contro la percezione del bene comune; una società che rischia di diventare un insieme di antinomie piuttosto che una armonica composizione di istanze plurali.

Torniamo alla Margherita: perché è "sfiorita"?
Nei periodi di transizione la politica può anche prendere le sembianze di un fiore, ma ogni fiore ha il suo ciclo vitale. Noi lo sapevamo fin dall'inizio: la Margherita era un soggetto politico "transitorio", nato per far fronte alla crisi di un sistema che ci era crollato addosso, in modo da approdare ad un ciclo politico successivo. Ora ci siamo arrivati. Come in ogni fase di transizione, abbiamo fatto scelte anche "emergenziali": per esempio il massiccio ricorso ai sindaci, molti dei quali nel 1998 e nel 2003 sono stati prelevati dai rispettivi territori e chiamati in Consiglio e in giunta provinciale. Non avevamo molte altre scelte: l'emergenza era nel governo dell'autonomia e lì abbiamo investito i talenti politici che i territori esprimevano. È chiaro che questa scelta ha avuto anche delle ricadute negative e che, comunque, non può essere il metodo a regime.

Insomma, quasi un ruolo di "supplenza" dell'Amministrazione nei confronti della politica?
Esattamente. E aggiungo che dovevamo tutti avvertire, io per primo, la necessità di chiudere molto prima questa fase, ricostruendo un àmbito organizzato autonomo della politica, intesa come strumento anche di indirizzo e di controllo del potere. Questo ritardo nel cogliere tale aspetto, ci ha esposti alla caricatura del "Partito del potere" e ci ha cucito addosso l'immagine di una classe dirigente troppo attenta al consenso immediato oltre che ad una idea "quantitativa" della vita civile. Sono in gran parte caricature, appunto, sovente ingenerose nei confronti di una Margherita trentina che ha avuto un ruolo fondamentale nel ridurre al minimo quella diaspora culturale e politica delle nostre tradizioni che invece si è manifestata appieno nelle bianchissime regioni del Lombardo-Veneto. E in ogni caso abbiamo recuperato il tempo perso ed oggi siamo già nel nuovo ciclo.

E il Partito Democratico? Cosa ne ha frenato l'avvio in Trentino? Perché lei non ne ha condiviso la costituzione in sede locale come nel resto del Paese?
A parte le riflessioni più generali sulla congruenza o meno, per il nostro Paese, e soprattutto per il Trentino, di uno schema bipartitico, nutro un sincero rammarico per il fatto di aver intuito, molto per tempo, che il Nord Italia richiedeva uno schema politico di tipo più "territoriale"; di tipo bavarese, per capirci. L'hanno capito benissimo Berlusconi e Bossi, ovviamente con coordinate di cultura politica radicalmente diverse dalle mie. Molto per tempo avevamo avvertito che nel centrosinistra si poteva sperimentare, nel Nord Italia, uno schema politico realmente di tipo federativo. Questo è caduto nel vuoto: neppure dopo il disastro delle elezioni politiche dell'aprile scorso si è aperto un serio ragionamento di questo genere. Non se ne sono curati, né a Roma, né qui. Si è pensato che per il Nord fosse sufficiente inserire nel circuito mediatico alcune candidature "gettonate" nei salotti ma totalmente lontane dal contesto sociale e da quello delle imprese del Nord. Avevamo poi pensato che almeno in Trentino, vista la sua peculiare caratteristica istituzionale, si sarebbe potuto attivare un piccolo laboratorio di territorializzazione della politica. Da Roma assoluto disinteresse: con alcune rare eccezioni, tra cui quella di Enrico Letta. Anche a Trento, la dirigenza dei Democratici di Sinistra ha dimostrato assoluta indisponibilità su questo piano, con l'eccezione di pochi, tra i quali Giorgio Tonini, con la sua nota intelligenza politica e Roberto Pinter, con il valore aggiunto della sua provenienza da un movimento politico del tutto peculiare e territoriale quale è stato "Solidarietà". Peccato. In ogni caso il realismo politico e la percezione del primato del progetto sugli strumenti ci hanno condotti ad una soluzione comunque positiva. Si è costituito il PD del Trentino. Ma è nato anche un altro soggetto politico, l'Unione per il Trentino, non in antagonismo ma in collaborazione: un soggetto politico non di breve momento ma destinato a durare ed a crescere al servizio della terza fase della nostra autonomia. Un primo "campo base" sulla terra ferma, dopo la lunga traversata.
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